Ambiente stressogeno in ufficio

Da anni la giurisprudenza si occupa di classificare la vasta gamma di situazioni lavorative disfunzionali che si verificano nei luoghi di lavoro (mobbing, bossing, straining ).
In argomento, è recentemente intervenuta la Corte di Cassazione la quale, con sentenza n. 3692 del 7 febbraio 2023, ha statuito che è illegittimo il comportamento della Pubblica Amministrazione-datrice di lavoro che consente il mantenersi di un ambiente “stressogeno” in ufficio.
Il Collegio dopo aver ricordato che è configurabile il mobbing ove ricorra l’elemento obiettivo, integrato da una pluralità continuata di comportamenti pregiudizievoli per la persona interni al rapporto di lavoro e quello soggettivo dell’intendimento persecutorio nei confronti della vittima (Cass. 21 maggio 2018, n. 12437; Cass. 10 novembre 2017, n. 26684) mentre è configurabile lo straining, quando vi siano comportamenti stressogeni scientemente attuati nei confronti di un dipendente, anche se manchi la pluralità delle azioni vessatorie (Cass. 10 luglio 2018, n. 18164), ha chiarito che -al di là delle denominazioni destinate ad avere più che altro valenza sociologica- è sempre illegittimo, poiché violativo dell’obbligo di sicurezza, il comportamento del datore di lavoro che consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute delle lavoratrici e dei lavoratori. .
Nel caso in esame, il giudice di seconde cure aveva accertato un grave e protratto demansionamento causativo di danno alla salute e, dunque, un inadempimento datoriale ad obblighi di appropriatezza nella gestione del personale, già rilevante ai sensi dell’art. 2087 cod. civ.
Partendo da ciò, secondo il Collegio, la Corte territoriale avrebbe dovuto considerare nel quadro generale della vicenda lavorativa anche gli altri episodi denunciati dal lavoratore al fine di valutare la complessiva legittimità o meno dei comportamenti datoriali anche rispetto all’obbligo (del pari riconducibile all’art. 2087 cod. civ.) di evitare lo svolgimento della prestazione con modalità ed in un contesto indebitamente “stressogeno”.
In sostanza, ciò che andava indagato era l’esistenza di una situazione lavorativa conflittuale di stress forzato nella quale il lavoratore avesse subìto azioni ostili, anche non rientranti nella fattispecie del mobbing, ma tali, comunque, da provocare una modificazione in negativo, costante e permanente, della situazione lavorativa, con pregiudizio del suo diritto alla salute. Infatti il datore di lavoro ha l’obbligo di evitare situazioni “stressogene” che diano origine ad una condizione che, per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, possa presuntivamente ricondurre a questa forma di danno, anche in caso di mancata prova di un preciso intento persecutorio (v. Cass. 19 febbraio 2016, n. 3291)
In questo quadro, che si tratti di mobbing, straining, o comunque di situazioni stressogene, un dato appare assodato: secondo la costante giurisprudenza, l’art. 2087 cod. civ. ha una portata molto ampia e non si limita ad imporre al datore di lavoro il mero rispetto delle norme di sicurezza prescritte esplicitamente ma prescrive un obbligo generale di prevedere ogni possibile conseguenza negativa della mancanza di equilibrio tra organizzazione di lavoro e personale impiegato e di adottare tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità psico-fisica delle lavoratrici e dei lavoratori.